Il trauma che la domenica apporta alla mia vita, cresce esponenzialmente ogni cinquantadue settimane l’anno. Perchè?
Non saprei. Credo di aver aderito a qualche iniziativa a favore della bestemmia da novella nascitura. A quell’età non si è ancora piuttosto giudiziosi, immaginerete.
Le liti migliori? Accadute di domenica. I peggiori traumi infantili? Ebbero luogo di domenica. Il compleanno più odiato? Quello che capitò di domenica.
Diverse sono state le domeniche che hanno condotto i miei nervi sull’orlo di una crisi irreversibile, ma posso asserire che quest’ultime, cioè quelle in pretura… oh perbacco! in dittatura… oh no, ai domiciliari, siano state quelle che più mi hanno fatto sudare. Sudare di un sudore che nemmeno quando facevo il test di Cooper alle medie ho mai sentito colare dall’attaccatura dei capelli. Pensate che sfiga se una domenica stesse piovendo fuori, mentre dentro un litigio imperversasse furibondo e al contempo fosse sia il giorno del mio compleanno che un altro di confinamento forzato (dall’utilità largamente discutibile)… Impensabile l’ipotesi che io possa sopportarlo senza implodere. Perciò sto lentamente ma inesorabilmente smettendo di tollerare l’esistenza delle domeniche. Credo sia il nome: se la domenica si chiamasse in un altro modo, probabilmente non la odierei. Potrebbe chiamarsi una cosa tipo “il giorno della pretura”, che farebbe ridere mentre dice la verità, sempre secondo quella scienza per niente accreditata che dice che l’ironia renda appetibile anche le realtà più crude.
La morale non saprei proprio quale possa essere. Ma avrete capito come io voglia minare la stabilità dei vostri neuroni, bruciandoli uno a uno con le mie sterili lamentele. Quantomeno ho dalla mia la sincerità nel palesare i miei empi scopi.
UNA DOMENICA IN PRETURA
