Sembrerà un cliché parlare di cliché, ma non è forse premettere che non sarà un cliché ciò di cui si parlerà, esso stesso il cliché?
Prologo da grattarsi il capo solo per disorientare il lettore e farlo fuggire prima di raccontargli le nuove dalla fabbrica.
Ho incontrato il mio primo vero ed originale bauscia milanese. Un uomo avanti con l’età e non lo dico io, lo dicevano molto imbruttitamente quei capelli bianchi che aveva in testa, ancora piuttosto lunghetti e ben pettinati, affezionati di sicuro alla gloria di un uomo che a suo tempo dev’esser stato un rampollo con la fissa per le donne.
Una trippa da vino rosso e pasta al sugo due volte al giorno, circa tutti i giorni, strozzata in una camicia con i bottoni più stressati della storia.
Rantola in un modo che dà la nausea, ma è un verso che si abbina molto bene alla giacca di velluto a coste color cachi che indossa. Mi guarda sorpreso e deluso, come fossi un animale raro ma viscidino.
Il suo parco donne dev’esser stato di quelle in gonnella, datate anni cinquanta, cappellini con la rete abbinati a guanti di seta stirati.
Probabilmente non ne ha mai vista una in pantaloni, penso.
L’occhio languido che ha, mi fa pensare di aver fatto centro.
Belle le cosce delle femmine, vero? Chiede la mia bocca accigliata mentre avanza verso di me con un portamento da biscia, tirando indietro la schiena per fare da contrappeso al masso che ha al posto della pancia.
“Se te dre a fa’ cusè? A saldà?” E ride con la mano in tasca strozzandosi in un colpo di tosse pieno di catarro.
Taaaac.