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Predisse di se stesso Paolo Borsellino che un giorno sarebbe morto, come tutti del resto, ma il punto è che lui predisse che la sua morte sarebbe stata per mano d’altri.
“Forse saranno mafiosi quelli che materialmente mi uccideranno” disse, ma disse anche che la sua morte non sarebbe stata una vendetta della mafia.
La mafia del resto è la mano guantata della giustizia, quindi aggiunse che “quelli che avranno voluto la mia morte saranno altri”, lasciando intendere che mafia e Stato siano come buoni amici di vecchia data.
L’Italia non è la patria del politicamente corretto. Se ne veste come fosse un abito di haute couture, ma non lo sa certamente indossare come si conviene.
E come tutti quelli che non vogliono tacere, Borsellino fece la fine misera degli scomodi al sistema, morendo, per la televisione, tentando di salvare il Paese dal tracollo dovuto alla corruzione e per la criminalità, da fastidiosa formica in mezzo alle chiappe. Che in fondo televisione e criminalità sono la stessa cosa.
Mi dissero in diversi che il mio posto sarebbe dovuto essere sui banchi della facoltà di giurisprudenza e poi in piazza, a difendere a spada tratta cose e persone, facendo valere la giustizia. Una giustizia che non esiste, in un Paese che piange come fosse una cicala d’estate. Scendere in piazza tra gente inchinata a servire un sistema col cancro, cieca, sorda e muta solo all’occorrenza. L’Italia è urla da mercato e orecchie da mercante.
È per questo che non ho sopportato l’università e non avrei sopportato i banchi di giurisprudenza.
Ma colta da un impeto dubbioso, ho chiesto a mio padre se non fosse stata avventata la scelta di non iscrivermici.
“No Federì, non è per te, non sai piegarti ai compromessi del sistema e poi romperesti troppo i coglioni.”
Forse non morirò come il buon vecchio Borsellino, ma non assicuro a nessuno che non “romperò troppo i coglioni”.

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